Archive for aprile, 2014

aprile 3, 2014

Recensione | MISERICORDIAE (8.38)

MISERICORDIAE (8.38) 

Recensione di Maddalena Capponi

La collana Versus -giuristi raccontano- di Novecento Editore annovera tra i suoi romanzi Misericordiae (8.38) di Massimo Ferro, consigliere della Corte di cassazione e autore divari saggi giuridici. La collana, nata lo scorso anno da un’idea di Lillo Garlisi, coniuga diritto e letteratura per fonderli in fantasiosi romanzi caratterizzati da un retaggio giuridico che ne fa derivare una narrativa sui generis.
Nella narrazione si rinviene il luogo in cui la ricostruzione è capace di sedimentare altri significati possibili, ribellandosi alla tirannia degli eventi. Nella circostanza dei fatti, il diritto autoritativamente definisce i significati della vita delle persone mentre lanarrazione può raccontare un’altra storia, quella esclusa ma non eliminata. E’ allora la dicotomia che riesce a scorgersi nel gioco dell’antagonismo letteratura–diritto, che evidenzia la rivincita delle possibilità contro la contingenza di quella che è impostata come la realtà.
Vincitore del Premio Letterario per la Narrativa RIPDICO – Scrittori della Giustizia 2013-Misericordiae (8.38) è un romanzo che esprime forte la scabrosità della vita, con un titolo pregnante di significato che rimanda all’evenienza di un’indagine sul tempo di ognuno. La filosofia occidentale si è interrogata in diversi luoghi e da diverse prospettive sulla misericordia, anche se questo termine ha assunto uno specifico e precipuo valore nel linguaggio religioso. Tommaso d’Aquino nella Summa Theologiae afferma che“misericordia significa avere il cuore nella miseria altrui”. Di origine latina, infatti, è la derivazione di miserĭcors (misericordioso), composto da miserere (aver pietà) e cor(cuore).
Massimo Ferro, con il suo Misericordiae, evidenzia la discrasia tra la riuscita di vite socialmente insospettabili e l’incompiutezza frustrante delle loro esistenze interiori. E’un mettere a nudo le debolezze e le meschinità dei protagonisti; quattro uomini e quattro donne, che intrecciano le loro vite in un percorso escheriano articolato nella cornice di città opposte con Medantia a nord, Ruanzo a sud e il piccolo borgo di Vico Massaro a chiudere il cerchio.
Otto capitoli per otto personaggi: Frida, Gisella, Cecilia e Lubijana; Giorgio, Mario,Annibale e il misterioso F.. Percorsi e scelte che si osservano da fuori, mentre dentro si arrovellano nel compiacimento di una freddezza solitaria, nel vuoto di una imperfezione latente, nell’ansia di una ricerca inconcludente.
In un tempo senza tempo, queste esistenze sono raccontate attraverso flash e pensieri fugaci ma icastici. Le sensazioni dei personaggi sono quelle che realmente trainano la narrazione. Il piano del presente è confuso con quello del passato. Infiniti avverbi e aggettivi si susseguono in descrizioni che sembrano allungate mentre in un istante si dissolvono in un altro tempo, in un altro momento, in un altro avvenimento accaduto prima o dopo o forse solo pensato. Le voci dei protagonisti si confondono con quella dell’autore in soliloqui più o meno incisivi e ricordi che riaffiorano più o meno compiuti. I giudizi sono velati; la presentazione dei personaggi è indiretta e la loro caratterizzazione psicologica e sociale. La soluzioni stilistica messe in atto dall’autore,assieme ad una consapevolezza espressiva, permette il raggiungimento di uno stile non banale. Ciò che rende circolare il racconto, a suo modo, è l’intreccio di questi destini,inizialmente così lontani ma che poi, con la tecnica dei flashback, vengono sorprendentemente rimessi in relazione.
L’autore sembra dilettarsi con queste identità, ma il confine da varcare obbliga a qualche rinuncia: ciò che si richiede infatti, è l’appropriazione di quello che è l’enigma dell’identità, ovvero la presa di possesso di un mondo interiore. L’interiorità ha qualcosa di impenetrabile per lo stesso io che la racconta ed è confusa per gli stessi personaggi che, incapaci di dire davvero di loro stessi, ricostruiscono un’ esistenza solo attraverso pochi sguardi al passato: momenti che lasciano un segno nell’intensità della loro poco importanza. Ogni esercizio minuzioso della memoria non potrà mai comunque ricollegare interamente tutti i fili, scontrandosi sempre con un muro d’ombra e ricadendo nel gioco dell’invisibilità dentro il quale l’interiorità va a rifugiasi.
E’ sulla soglia di questo con-fine, che Ferro scaraventa il lettore da una parte all’altra provocando ciò che è inganno o pervicace nascondimento della realtà nellaoffuscamento delle proprie colpe. Vizi, debolezze e incapacità che segnano come cicatrici indelebili il tempo di un trascorso amaro, sembrano mostrare il fianco ad una sagace critica. Scelte o solo impossibilità invocano la misericordia, che non è pietà;eppure è l’attesa a prendere il sopravvento e procrastinare il momento del giudizio. Il lettore vorrebbe conoscere quell’elemento ulteriore per potersi pronunciare su queste vite; quell’elemento però che non sembra mai poter arrivare, generando così una inconscia rinuncia al giudizio per far posto a quella giustizia caritatevole che vede sovrana la misericordia.
Nelle immagini infantili, giovanili, o quantomeno lontane e innocenti, si scorge lo scudo di protezione di quelle vite che per certi versi temono il presente più del futuro. Resta comunque funesta l’immagine dell’avvenire, nell’abbandono alla presa di coscienza per l’impossibilità di liberarsi dalle limitazioni in cui sono intrappolati.
Personaggi autentici, per quanto capziosi, sanno tenere il lettore seduto insieme agli altri giurati popolari ad ascoltare l’arringa dell’avvocato difensore, che fa leva sulla imperfezione della natura umana per indurre all’immedesimazione.
E’ una finzione reale in una realtà finta, ma nel gioco degli ossimori si conclude ogni pensiero all’alba dello splendore della vita stessa che è quella di tutti e di nessuno ma valore assoluto…della misericordia!

aprile 3, 2014

Recensione | CHI NASCE QUADRO PUO’ MORIRE TONDO.

CHI NASCE QUADRO PUO’ MORIRE TONDO 

Recensione di Maddalena Capponi

Chi nasce quadro può morire tondo è uno dei tre romanzi con cui ha debuttato lo scorso ottobre la collana Versus -giuristi raccontano- edita da Novecento Editore. Unica nel panorama nazionale, la collana propone un’avventura letteraria nella quale si sprigiona la fantasia di esperti giuristi per dar vita ad una narrativa appassionata e peculiare: sono storie di pura fantasia, intrise però da quel mondo del diritto che si porta dietro argomentazioni, immagini e linguaggi tutti suoi.

Bruno Capponi, ex magistrato e attualmente ordinario di Diritto processuale civile presso la Facoltà di Giurisprudenza della LUISS Guido Carli, da vita ad un romanzo coinvolgente e misterioso che appassiona nel fitto di un giallo che si eleva a sè stesso in un duplice delitto inaspettato e prima facie poco afferrabile.

Già dalle prime pagine il lettore è immerso bruscamente in un mistero sconosciuto, mentre è accompagnato dolcemente in una Roma conosciuta di un passato vicino. In un climax ascendente di colpi di scena, l’autore sa come creare quella curiosità che latentemente si impregna in ogni pagina, lasciandosi divorare parola dopo parola.

E’ una storia di delitti ma anche di amori, di ipocrisia ma anche di sentimenti, di vita ma anche di morte; è una storia, senza dubbio, di paradossi. C’è il notaio Avv. Ferdinando Petti Muflone, con studio notarile rigorosamente in via delle Quattro Fontane angolo via XX Settembre: noto come “il cinghiale del Quirinale”, il notaio dei nobili; ma c’è anche Loredana Salvatori der fu Giuseppone detto er Cicala: per i suoi tanto frementi ammiratori ‘a Tigre der Bengala. C’è Eva Finzi Catalanotti, antiquaria marguttara, con la sorella Ada vedova del conte Romeo Maria Blasotti, scomparso in un tentativo di traversata della Manica a libero volo d’uccello, senza propulsore e sopratutto senza paracadute; ma c’è anche er Puma, avvenente quanto criptico sommelier a tempo perso, con un passato alquanto inaspettato.

C’è poi donna Concetta Lancellotti, matura vedova Antinori; il mercante di informazioni Giorgio Serravalle; l’ingegnere Tomassini; ma sopratutto c’è lui: l’avvocato cassazionista Ernesto Mignoni Arduini, iscritto all’Ordine di Roma. Uomo monotono, stereotipo di una certa routine, passa le sue giornate nell’elegante studio di Viale delle Milizie dove, infaticabile, è sempre presente la sua anziana segretaria Olga, signorina, come a lei piace essere chiamata. In tanti anni ha appreso un fertile repertorio di formule avvocatesche che ripete in modo istintivo con risultati infallibili non mancando però di chiedere lumi al suo principale nei rari casi in cui le sorgono dei (legittimi) dubbi: <<Avvocà, jòo potemio dì, in chiusura: “lieto dell’incontro professionale, porgo distinti saluti”, quanno prima javèmio detto: “in mancanza di risposta entro giorni sette dal ricevimento della presente, adiremo le vie legali senza ulteriore avviso”? Nun zembrerà, me scusi avvocà, ‘n po’ ‘na presa pe’r culo?>>.

<<Avvocà, ma si “la presente è da considerarsi riservata e priva di valore di proposta contrattuale per la parte da me rappresentata”, allora che jaavèmio scritta a ffa?>>.

Dall’attico con terrazzo su ai Monti Parioli, alla stazione ferroviaria giù a Trastevere; dalla villa De la Fontaine Ortucci sull’Aventino, al sottosuolo della discarica sotto lo storico Monte dei Cocci. È il continuo contrasto tra l’altisonante “Roma bene” e quella “di borgata”, che però talvolta riesce a far impallidire la prima al richiamo di una espressività colorita e carismatica che cela la forza della vita passionale; quella vita dominata da emozioni e istinti allo stato naturale, senza il filtro di costrutti sociali e culturali che ne ridimensionino la portata. Nel grigiore di quel ceto medio fatto di vizi e di virtù, ma sopratutto di contraddizioni, è l’avvocato Arduini ad essere al centro della scena, e a mettere a fuoco l’obiettivo sull’esistenza.

Il personaggio che lega tutti gli avvenimenti, sullo sfondo sempre presente -forse perché è la più “assente” in fondo- è quello della pluriblasonata contessa marchesa Camilla de La Fontaine Ortucci.

Soggetto interessante che racchiude più di tutti quel contrasto tra il nobile e la forma, il tutto e il niente di una vita svuotata e una nobiltà decaduta. Come il filo invisibile di una tela tessuta con incessante pazienza, si lega ad un altro destino nella consapevolezza di non avervi nulla da spartire, ma con l’audacia di bramare una sorte insignificante tanto più di quella faticosamente costruitasi con le sue mani, nel retorico quesito di chi sia veramente a vivere una “vita bene”! E poi c’è Roma, sullo sfondo che fa da cornice, ma che è anche protagonista, di fatti, di vite, di sogni, di speranza, di ricchezza e povertà che si intrecciano e si alternano proprio come i suoi quartieri; nel continuo variare di antico e moderno, orgoglio e vergogna, storia e quotidianità.

L’autore ci riporta continuamente fra le sue strade, ci fa vivere il suo fascino attraverso il richiamo di certi particolari, attraverso indirizzi precisi menzionati nel dettaglio, richiamando i nomi di quelle vie del centro storico che ognuna racconta una storia, da sé, nel solo nominarla.

Il tempo è diradato, sono pochissimi giorni e di quei giorni solo poche ore ma nel contempo è una vita e, anzi, tante vite che si scoprono, si ritrovano, si amano e si perdono. Solo pochi momenti che nel realizzarsi raccontano e portano alla mente del lettore -come se già fosse, come se già lo conoscesse- una serie di fatti storie e avventure del passato che riescono a far da collante al senso degli assurdi avvenimenti che si consumano in quelle poche giornate. Giornate spezzate dalla routine e vissute nell’angoscia di eventi tragici ma, al contempo, carichi di una vitalità fremente che permette nella sua unicità di stravolgere i piani di una esistenza in fondo scontata.

“Chi nasce quadro può morire tondo”, è un romanzo ricco, coinvolgente, in grado di divertire mentre cerca di far riflettere. Il titolo riporta alla mente un famoso brocardo frutto della saggezza popolare, sebbene nell’inversione del suo ammaestramento. Non mancano pagine dedicate alla questione, fitte di affascinanti teorie sul punto, esposte da emeriti accademici che si interrogano sul quadro e sul tondo e su tutto ciò che ne può derivare.

Buttate qua e là tra le righe, poi, taglienti battutine sembrano voler rassegnare sottili lamentele su coloro che rappresentano la giustizia. Coloro i quali vorrebbero ostentare prima di tutto morale e prestigio mentre spesso si smentiscono sotto i colpi di una dura e cruda realtà; a farne da megafono talvolta è proprio la signorina Olga, nella sua semplicità che cela però anche erudizione. Olga è un personaggio cardine nel suo essere secondario, stupisce per come riesce a districarsi ammirabilmente in formule giuridiche e risoluzioni di questioni legali. Incorniciata poi, in quella romanità de Roma che la contraddistingue, è quel tanto ironica da far bramare il lettore di incontrarla il più possibile nel susseguirsi degli eventi.

<<Avvocà, me scusi tanto si mme permetto, ma jòo dicevo che qua cce serve n’avvocato bbono: pur’io me so spaccata a’capoccia, me so spremuta ‘a bricòccola tutt’er ucchènd, e poi ho capito che a’prescrizione se po’ sempre eccepì, perchè er giudice te po’ dichiarà ‘a prescrizione pure d’en diritto che n’è mmai esistito. Sembra ‘na stronzata, avvocà, ‘nciòo so, ma è propio così: ho trovato ‘na sentenza daa Cassazzione che parla de “inversione dell’ordine logico delle questioni”: cioè, pe’ dilla come va detta, è ‘na cosa che nun cià nessuna loggica, ma ‘ntanto ce conviene da eccepì ‘a prescrizione perchè ‘a signora cappellona è venuta da noi più di cinque anni fa, e si ciaveva da lamentasse ‘o doveva fa subbito, entro er quinto anno: me dispiace tanto, cappellona culona mia…doppo, saa aripija ‘nder zecchio, è regolare, no?>>.

La trama si infittisce, si ingarbuglia e cresce latente nel lettore la curiosità per l’epilogo che dissolva ogni nodo e sveli l’arcano del fitto mistero! Gioca un ruolo importante anche l’amore, fondamentalmente disillusione di un sentimento che puro e idilliaco come tutti lo raccontano, non esiste o, quanto meno, non è possibile. Eppure, è proprio quello stesso -l’amore- ad oliare gli ingranaggi della vicenda, a rendersi strumento necessario affinché tutto possa girare e perciò, in definitiva, capace di animare gli stessi protagonisti in una sorta di paradosso; forse quello che più di tutti l’autore mette in mostra.

In uno stile vivo, Capponi fonda la propria competenza di giurista con una spiccata vena creativa: arricchito da paradossi, personaggi più o meno singolari, delitti particolari e una scelta terminologica ricca e variegata.

Sa coniugare parole latine e dialetti creando un idioma sui generis che rende il racconto a tratti umoristico, regalando così al lettore divertimento, insieme ad intrighi e passioni.

 

aprile 3, 2014

Recensione | CERCANDO KAFKA

CERCANDO KAFKA

Recensione di Maddalena Capponi.

 

Guido Marcelli, magistrato con la passione per la scrittura, dopo numerosi racconti, debutta con il suo primo romanzo: Cercando Kafka, pubblicato nella collana VERSUS -giuristi raccontano- di Novecento Editore.

Grande stimatore dell’autore boemo, Marcelli, gli rende omaggio dando vita ad una narrazione che si intreccia puntualmente con le opere di questo scrittore.

In particolare il tributo è per Il Processo, testo letterario di grande spessore, una delle opere più misteriose di Kafka, al quale l’autore fa continuo riferimento, approfondendone i temi fondamentali per apportarne un contributo personale.

Ambientato nello scenario di una Praga tutta da svelare, il lettore si confronta da subito con improbabili circostanze e personaggi più o meno singolari; ma sembra essere la suggestione a giocare il ruolo principe in questo racconto, di cui è protagonista il signor K.

Giunto nella capitale Ceca con l’intento di immergersi nell’atmosfera che ispirò i grandi scrittori boemi-in una sorta di pellegrinaggio mistico-letterario- K. è da subito investito da accadimenti singolari,imprevedibili e anomali.

Le diverse contraddizioni presentate sono regolate ad arte per mettere in dubbio i punti di riferimento certi per il lettore e trascinarlo così in una condizione quasi onirica.

Il racconto si apre in un arrivo silenzioso, nella notte, alla fatiscente pensione “Al gatto verde” . Con i suoi perturbanti attori di riferimento, che la rendono quanto mai caratteristica, questa diventerà sede di un gioco di sospetti e desideri, incorniciando la permanenza di K. in una frustrante grettezza da cui ancora dovrà prendere le mosse.

Colmo di ore pesanti come pietre, che si rifiutano di precipitare nel gran buio del non vissuto,le giornate di K. si scandiscono al ritmo incessante di immaginazioni e solleciti costanti. Nel delirio di manie persecutorie al confine con incredibili coincidenze -o forse semplicemente realtà troppo influenzate da una passione letteraria smisurata- procedono in avanti un susseguirsi di eventi poco probabili, lasciandosi dietro l’interrogativo sul se qualcosa stia davvero accadendo o soltanto tutto resti la banale illusione di un visionario evanescente, che vive nella sua mente ciò che invece vorrebbe fosse nella sua vita.

Il signor K. è una figura difficile da tratteggiare, mentre si scorrono le pagine e si cerca di visualizzarla,tende a prendere sembianze diverse di capitolo in capitolo.

Talvolta smarrito, vive situazioni su cui non prende il sopravvento ma dalle quali si lascia come cullare,al limite tra l’indifferenza e la sofferenza, tra l’abbandono e in fondo la speranza per una mistica rivelazione. In questo atteggiamento mostra reazioni delle quali lui stesso si impressiona, si meraviglia,ma sulle quali, in definitiva, non si sofferma; progredendo quasi per inerzia, mentre continuamente altri lo interrompono e lo coinvolgono in discussioni, proposte e richieste di ogni specie.

In una incisiva indifferenza si osserva una vita che pare mediocre, così come a prima vista il signor Petecchia tenta di convincere -e dopo di lui quasi tutti, dal sudicio Herman al teppistello Svatek- ma che in fondo, poi, lo si rivela meno di quella di altri, che per quanto possano apparire poco spersi, sono solo automatizzati in un sistema che li rende vuoti. Senza dubbio sono molteplici le implicazioni psicologiche del romanzo e su queste si potrebbe ripensare a lungo.

Preponderante, poi, riecheggia il mito della legge, che fa da cornice, da sfondo e insieme da protagonista. C’è un continuo riferimento alle descrizioni di Kafka sulle misure elefantiache dell’apparato burocratico statale tra Autorità Giudiziarie Inferiori e Autorità Giudiziarie Superiori; Autorità Centrali,Autorità Inaccessibili e Autorità Infallibili. In questo rivivono i suoi personaggi letterari e le scenografie che puntualmente vengono descritte nel dettaglio, dalle claustrofobiche aule del tribunale alle cupe architetture verticali del Castello. Quanto mai icastica, la descrizione dell’arte figurativa giudiziaria che,nell’appassionare il protagonista, riesce a portare alla mente del lettore riflessioni incisive sulla questione della giustizia.

Nello scorrere dei capitoli, ognuno titolare di un’avventura ben precisa, il lettore è partecipe di una sorta di metamorfosi che però non pare voglia necessariamente evolvere ma a volte si ritrae in sé stessa. La percezione, per buona parte del racconto, è che si tratti di un viaggio che non riesce ad ingranare all’infuori dell’auto-suggestione del protagonista, nonostante non manchino input esterni che rimettono in discussione ogni questione. Eppure, ad un tratto, tutto sembra iniziare prendere una forma ed avere una sua logica, sebbene assurda o forse proprio un’assurdità compiuta poiché logica.

Ci sono laconiche conversazioni che cercano di dissipare taluni dubbi preponderanti, ed altre che danno il via a confidenze inaspettate; su tutti però impervia il sospetto e l’inaffidabilità delle maniere.

Per le vie della vecchia Praga, frastornato dalla leggenda di vie traverse e vie principali, il protagonista improvvisa i suoi percorsi, sulla scia di quegli stessi fatti, al limite dell’improbabile, che continuano ad accadere. E’ così che riesce a fare i suoi migliori incontri: dalla commessa Frida alla guida Petecchia,dal pittore Titorelli al sacerdote Padre Olmer, nessuna conoscenza si rivelerà superflua.

Le situazioni paradossali, talvolta angoscianti, appaiono accettate come status quo, implicando l’impossibilità di qualunque reazione tanto sul piano pratico che su quello psicologico. In questo il signor K. è maestro; inerme a tutto, senza mai scomporsi troppo o riflettere sul non senso dei fatti che lo investono. Continua preferire il procedere in avanti, mai stanco; si convince senza batter ciglio di ogni fatto per quanto surreale possa sembrare, quanto di ogni spiegazione per quanto semplicistica possa risultare. Spesso stordito neanche si lamenta, solo va avanti, come se tutto fosse logico che fosse assurdo per lui; e come se tutto quello che in definitiva bramasse fosse semplicemente esserne travolto.

Con uno stile narrativo leggero, l’autore sembra centrare in pieno i suoi propositi e far riecheggiare forte il mito Kafkiano. Il racconto, a suo modo, pone l’accento su scelte esistenziali, relazionali e sentimentali che rivelano tutta la loro complessità nel preludio della contraddittorietà -e talvolta anche impulsività- di certe azioni.

In un finale catartico che suggella la svolta di una presa di coscienza del sé che si butta dietro la mediocrità, K. si sente forte nella verità di un mistero scoperto; e l’autore rimette a posto ogni tassello infondendo la convinzione che in definitiva tutto sia accaduto e senza esitazione abbia fatto il suo corso.